martedì 7 marzo 2017

Di teatri e teatrini



Quando le situazioni sono particolarmente stressanti siamo tutti esposti alla scarica somatica delle nostre tensioni: mangiamo compulsivamente, beviamo o fumiamo più del solito ecc. Si tratta di un normale meccanismo inconscio che serve alla regolazione del nostro equilibrio psichico: evacuiamo un’insopportabile eccitazione affettiva.
Tuttavia alcune persone utilizzano tale modalità con continuità andando incontro ad un aumento di vulnerabilità psicosomatica a causa della quale il corpo lamenta stabilmente e rigidamente malesseri difficilmente spiegabili da una causa organica.

L’uomo d’oggi è portato a scindere in misura sempre più massiccia l’affetto dal gesto, per le più svariate ragioni tra cui:
  • l’efficienza (scolastica, lavorativa, sessuale, etc,),
  • l’analfabetismo emotivo (ovvero la non conoscenza delle emozioni perché né a casa, né a scuola, si insegnano più i nomi, l’ascolto e il riconoscimento delle emozioni proprie ed altrui),
  • la difficoltà a tollerare uno stato di disagio o di malessere e della prospettiva che, se adeguatamente compreso, potrà passare e arricchire la propria esperienza,
  • l’impossibilità di differire nel tempo l’attesa del raggiungimento dello stato di benessere,
  • la bassa tolleranza dell’assenza, della separazione e della dipendenza.

Separando l’affetto dal gesto resta sicuramente più energia, a livello di economia psichica, per essere più efficienti e anche meno soggetti a sofferenze, ma c’è una contropartita dato che l’affetto non è mai solo psichico, così come il gesto non è mai solo fisico.
Se si separa l’affetto dal gesto non ci sarà un’elaborazione dell’emozione in pensiero ma una sua evacuazione a livello sintomatico. Coloro che trattano l’emozione in questo modo sono potenziali prede di esplosioni somatiche di vario tipo soprattutto quando si verificano eventi traumatici come incidenti, lutti, nascite, malattie, separazioni, abbandoni, perdita del lavoro).

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ci dice che, del miliardo di sofferenti psichici che abitano il mondo, seicento milioni risiedono in paesi industrialmente e tecnicamente avanzati, come il nostro, dove gli uomini sono sempre meno “soggetti attivi” della loro vita e sempre più “funzionari passivi” degli apparati culturali, politici, tecnici e lavorativi che li impiegano.

Non sembra che il quadro sia realmente così allarmante?
Il disagio psichico tende a nascondersi perché ci si vergogna di ammetterlo a se stessi, figuriamoci agli altri. Il disagio, quello poco visibile perché non allucinato, tende a nascondersi e a non farsi notare se non nell’intimità della vita domestica e privata oppure nel teatro del proprio corpo dove, quando emerge, lo fa talvolta a piccole dosi, talvolta tracimando gli argini e devastando tutto. 
E per svariate ragioni si cura il corpo (o si crede di curarlo) ma poco o niente la psiche, propria e altrui.

Di nuovo, non sembra che il quadro sia realmente così allarmante?
Basterebbe che ciascuno guardasse nelle proprie tasche, borse, pochette, macchine, bagni o cassetti per trovare sonniferi, pillole antipanico (due milioni), ansiolitici (tre milioni), antidepressivi (cinque milioni), (fonte dei dati è sempre l’Organizzazione Mondiale della Sanità); il tutto per poter reggere e affrontare i ritmi, le apparenze e la qualità della vita che ci siamo costruiti.

E spesso tali farmaci non vengono nemmeno prescritti da uno psichiatra ma dal semplice medico di base, quando non direttamente auto-prescritti perché giovano alla nonna, al coniuge o all’anziano che seguiamo e per il quale richiediamo le ricette.

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