lunedì 27 febbraio 2017

Ebbene si, faccio i capricci!



Quando un bambino si ribella, si comporta male o combina un danno di proposito c’è sempre un motivo. Così come per i comportamenti degli adulti.
In questa occasione mi soffermerò sui comportamenti che comunemente definiamo “capricci”.
I capricci esistono eccome, ma non nel senso in cui li intendiamo noi adulti.
Secondo il punto di vista dell’adulto, un capriccio è un comportamento arbitrario, che non ha alcuna giustificazione e che non tiene conto né del contesto né delle esigenze altrui. In pratica è un comportamento egoista e inaccettabile.

Dal punto di vista del bambino, il capriccio è un modo più efficace di altri di comunicare qualcosa che non è andato nel rapporto con chi si prende cura di lui; è il tentativo di farsi ascoltare e vedere.
L’oggetto del capriccio non ha nulla a che vedere con il reale motivo che lo ha scatenato e infatti, se il genitore concede ciò che in quel momento viene chiesto, il bambino troverà un altro sostituto o un altro modo per manifestare la sua protesta.

Il capriccio è un pretesto e i bambini sono consapevoli dell’assurdità della loro richiesta, ma è l’unico modo che hanno a disposizione per protestare e mandare un messaggio al diretto interessato. È come se dicessero: «Tu mi hai fatto un torto prima e io ora reagisco così». E il torto viene sanato solo se si ristabilisce il contatto emotivo.

All’origine dei capricci, dunque, c’è un torto reale che il bambino ha subito.
Ogni torto subito è una violenza.
Il fatto di non compiere gesti di violenza fisica o verbale nei confronti di un bambino non significa che non esistano altre forme in cui essa possa manifestarsi e nessun eufemismo può nascondere che la violenza non è altro che violenza e distrugge l’autostima e la dignità e l’integrità di chi ne è vittima, oltre che di colui che la pratica.

I genitori devono assumersi la responsabilità delle conseguenze dei propri gesti anche quando questi non sono stati premeditati. Non basta che il genitore senta di avere la coscienza tranquilla perché non ha violato le leggi e i diritti dei bambini.
È violenza non vedere i propri figli, non riconoscere il loro bisogno primario di affetto, di presenza emotiva e mentale e soprattutto di ascolto.
Come tra gli adulti, anche nei rapporti con i bambini non contano tanto gli atti quanto i vissuti che si comunicano e che si percepiscono. Non conta tanto l’intenzionalità del gesto da parte del genitore (o di chi per lui) quanto la percezione del gesto da parte del bambino.

Ciò che più ferisce i bambini è la mancanza di sintonizzazione affettiva.
Come gli adulti, anche i bambini, quando sentono di non essere importanti, diventano irritabili, aggressivi e frustrati.
Far fronte a questi sentimenti va ben oltre le loro competenze e capacità.

A tutti i genitori, nonni ed educatori può capitare di non essere presente emotivamente per il bambino, per cui, più che soffermarmi su un discorso di attribuzione di colpa, ritengo sia utile aprire una riflessione sul fatto che, ogni qualvolta si assista a dei capricci, egli sta dicendo che non ci siamo stati per lui.
Se si assume la responsabilità di questo modo di vedere le cose si possono gestire meglio le situazioni specifiche senza mettere in circolo aggressività e vissuti difficili da digerire.

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