Quando,
nel 1978, Franco Basaglia fece approvare in Italia la legge n. 180, che sancì
la chiusura dei manicomi, era solo il punto di partenza per richiedere alla società tutta un impegno
più grande verso un cambiamento più profondo, ovvero non avere più paura di chi
è diverso da sé.
Basaglia
ci ha insegnato che la sofferenza psichica non è una malattia ma una condizione
in cui chiunque si può ritrovare in momenti diversi della propria vita, momenti che possono diventare permanenti
quando fallisce la comunità in cui si vive.
Per
stare bene tutti noi abbiamo bisogno di relazioni, di affetto, di cure, di
rapporti umani con chi si prende cura di noi, di denaro, di cibo, di calore, di
una famiglia, di risposte reali per il proprio essere. Chi soffre psichicamente
non è solo un sofferente psichico: è prima di tutto un essere umano che ha
bisogni e necessità in quanto essere umano.
Purtroppo,
stando ai grigi tempi di chiusura mentale e affettiva che stiamo vivendo, sembra
che la difesa dei più deboli, dei folli, dei diversi, degli immigrati, non sia
più un ideale della nostra cultura.
Eppure
offrire gesti di amore non ha costi sociali, non incide sul bilancio statale,
né su quello familiare o individuale, anzi potrebbe accrescerli. Si potrebbe
diffondere gentilezza, pensiero per l’Altro, affetto, con generosità e piacere,
se solo le nostre vite non proseguissero in quel processo di inaridimento,
paura e desertificazione che tanto dilaga.
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