La
nascita di un figlio è un’esperienza particolarmente emozionante, faticosa,
carica di sogni, aspettative e fantasie; un’esperienza meravigliosa ma anche
dolorosa e a tratti alienante.
Lo è perché non sempre
la gravidanza è stata desiderata o cercata, lo è perché non ci si riconosce più
nel proprio corpo, lo è perché a volte si è tristi e ci si sente incapaci, lo è
perché l’avere un figlio è una ferita al proprio narcisismo, lo è perché è
stancante allattare continuamente, lo è perché ci si identifica con il latte e
se questo viene a mancare non ci si sente abbastanza madri, lo è perché ci si
scopre improvvisamente gelose, lo è perché non si dorme abbastanza, lo è perché
le pressioni sociali, culturali, psicologiche ad essere una buona madre (la
migliore) schiacciano sin da subito.
Lo è per via
dell’ambivalenza del sentimento di amore.
È
insito dell’essere umano provare amore e odio e non sarebbe rispettoso di noi
stessi e della nostra complessità non riconoscere che nel nostro più profondo
si intrecciano in modo contorto amore e odio, piacere e dolore, gioia e
tristezza, luce e buio, bene e male, potere di vita e potere di morte.
Vale
per la donna come per l’uomo, per la madre come per il padre che, anche se non
porta avanti fisicamente la gravidanza e non allatta, conosce le ore di
insonnia o i sonni spezzati da pianti strazianti.
Ma
è la donna che maggiormente sente in sé il conflitto tra il proprio Io che
rivendica il suo spazio e la consapevolezza di essere la “depositaria della
specie”.
È la donna che ancora oggi,
molto più dell’uomo, sacrifica il suo corpo, il suo tempo, il suo spazio, i
suoi amori, il suo lavoro, le sue relazioni.
Lo fa con amore e lo fa
con odio.
Questo
bisogna riconoscerlo perché altrimenti continueremo a classificare e relegare
gli atti estremi come casi di raptus (che poi il raptus non esiste) o come follia ben lontani da noi. Invece,
soprattutto nel primo periodo della maternità e della paternità, la stanchezza
e i profondi cambiamenti in atto, fanno emergere in modo violento i moti di
vita e i moti di morte.
Ed
è solo se non si è chiusi in un’estrema solitudine e degrado (non solo sociale
ma anche dell’animo) che non si oltrepassa la sottile linea che va dal pensiero
all’azione.
Per
cui riposarsi, parlare, non rincorrere irrealistici ideali di perfezione,
riconoscere ciò che si prova e anche il senso di colpa che ne deriva,
rallentare, respirare, uscire, delegare, ascoltarsi e ascoltare il compagno e
la compagna, ascoltare il bambino.
È
tutto lì, non serve altro ed è tutto normale.
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