martedì 14 febbraio 2017

Amore, odio e riparazione ... della genitorialità quotidiana



La nascita di un figlio è un’esperienza particolarmente emozionante, faticosa, carica di sogni, aspettative e fantasie; un’esperienza meravigliosa ma anche dolorosa e a tratti alienante. 

Lo è perché non sempre la gravidanza è stata desiderata o cercata, lo è perché non ci si riconosce più nel proprio corpo, lo è perché a volte si è tristi e ci si sente incapaci, lo è perché l’avere un figlio è una ferita al proprio narcisismo, lo è perché è stancante allattare continuamente, lo è perché ci si identifica con il latte e se questo viene a mancare non ci si sente abbastanza madri, lo è perché ci si scopre improvvisamente gelose, lo è perché non si dorme abbastanza, lo è perché le pressioni sociali, culturali, psicologiche ad essere una buona madre (la migliore) schiacciano sin da subito.
Lo è per via dell’ambivalenza del sentimento di amore.

È insito dell’essere umano provare amore e odio e non sarebbe rispettoso di noi stessi e della nostra complessità non riconoscere che nel nostro più profondo si intrecciano in modo contorto amore e odio, piacere e dolore, gioia e tristezza, luce e buio, bene e male, potere di vita e potere di morte.
Vale per la donna come per l’uomo, per la madre come per il padre che, anche se non porta avanti fisicamente la gravidanza e non allatta, conosce le ore di insonnia o i sonni spezzati da pianti strazianti.

Ma è la donna che maggiormente sente in sé il conflitto tra il proprio Io che rivendica il suo spazio e la consapevolezza di essere la “depositaria della specie”. 
È la donna che ancora oggi, molto più dell’uomo, sacrifica il suo corpo, il suo tempo, il suo spazio, i suoi amori, il suo lavoro, le sue relazioni.
Lo fa con amore e lo fa con odio.

Questo bisogna riconoscerlo perché altrimenti continueremo a classificare e relegare gli atti estremi come casi di raptus (che poi il raptus non esiste) o come follia ben lontani da noi. Invece, soprattutto nel primo periodo della maternità e della paternità, la stanchezza e i profondi cambiamenti in atto, fanno emergere in modo violento i moti di vita e i moti di morte.

Ed è solo se non si è chiusi in un’estrema solitudine e degrado (non solo sociale ma anche dell’animo) che non si oltrepassa la sottile linea che va dal pensiero all’azione.

Per cui riposarsi, parlare, non rincorrere irrealistici ideali di perfezione, riconoscere ciò che si prova e anche il senso di colpa che ne deriva, rallentare, respirare, uscire, delegare, ascoltarsi e ascoltare il compagno e la compagna, ascoltare il bambino.

È tutto lì, non serve altro ed è tutto normale.

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