La
nostra è una società fatta di paradossi: condividiamo con costanza ciò che
facciamo, ciò che pensiamo e ciò che ci accade ma ciò che forse dovrebbe essere
detto e comunicato viene serrato, blindato, dietro le mura del diritto alla
privacy.
Un
tempo le famiglie erano in qualche modo “tutelate” dal sociale, ora si chiudono
in un mondo nucleare tagliando fuori anche l’ambiente sociale più stretto che è
quello amicale e parentale.
La
condizione materna non è mai stata caratterizzata da tanta solitudine come ora.
Un
tempo quelle che erano già madri affiancavano le nuove madri, ora tutto ciò che
accade, dentro la famiglia e dentro la donna, resta chiuso, non espresso, non
detto.
Il
diritto alla privacy e la sua tutela sono sfociati in un disinteressamento
reciproco che crea solitudine e nella
solitudine si creano ingigantimenti di timori e pensieri che, se non
comunicati, diventano ingestibili e creano disperazione.
L’isolamento
e la disperazione si rintracciano, purtroppo, spesso dove le condizioni
economiche, affettive, sociali e culturali sono più povere.
La
disperazione e la solitudine impediscono di pensare e comunicare l’emozione che
si vive e portano al concretizzarsi di atti disarmanti e disastrosi.
Se
si vive da tempo con sentimenti che sono ignoti a noi stessi, sentimenti che
non si è avuto modo di comunicare, di portare alla propria coscienza,
comprendere e affrontare (come purtroppo avviene nel vivere quotidiano della
nostra società), se si pratica una separazione tra azione ed emozione,
allora si compiono gesti di cui non si percepisce il senso emotivo, li si
compie e basta.
La
separazione che avviene tra emozione
e azione porta al non sapere più chi
si è e cosa accade dentro di sè, pur mantenendo la propria efficienza nelle
attività quotidiane.
Non
significa che si è impazziti.
Non
guardiamo lontano da noi, l’infanticidio non è il gesto di un genitore
impazzito, è il gesto di un genitore solo e isolato da se stesso perché né la
famiglia né la società sono più in grado di farsi carico dell’Altro.
Un
male comune da cui la maggior parte di noi si sente immune; ma è
nell’isolamento interiore, dove non arrivano carezze e parole di ascolto e
conforto, che il terribile è alle porte, non come gesto improvviso ma come
svuotamento di quelle risorse che fanno
da argine all’amore separandolo dall’odio.
Spesso
la famiglia è la prima a negare, a non vedere ciò che in realtà vede, sia esso
la violenza, un problema di dipendenza, la pedofilia o l’infanticidio.
Fortunatamente,
almeno nella metà dei casi, le nuove coppie si dividono i compiti ma non basta
che i padri siano presenti al parto, devono esserlo sempre, nella quotidianità,
conoscere, riconoscere e condividere quel limite che separa l’abbraccio che
protegge e nutre dall’abbraccio che imprigiona e soffoca.
Non
c’è nulla di male nel provare sentimenti contrastanti, capita a tutti ed è
capitato a tutti i genitori.
Allora
che i padri si attivino per sostenere e ascoltare le madri perché per alcune di
loro è stato troppo gravoso lo sconvolgimento fisico, la deprivazione di sonno,
la rapina del loro tempo e dei loro affetti altri, del loro lavoro,
l’occupazione del loro spazio esterno e interno profondo.
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